A che serve educare?
La cultura contiene esercizi e addestramenti che, una volta consolidati, vengono chiamati usi, costumi e tradizioni. Divengono così spontanei che se ne perde l’origine artefatta, quasi fossero “naturali”. Solo quando entrano in crisi, diventano oggetto di attenzione. Si apre allora una fase di cambiamento, dove il dialogo, la ricerca, la sperimentazione prevalgono sui vecchi programmi di azione ripetuti nel tempo. E’ il caso dell’educazione e della famiglia come agenzia deputata a tale compito.
Nel Novecento la potestà genitoriale (in realtà paterna, poi emendata), da dimensione di potere e di controllo, ha ricevuto anche la funzione educativa. Oggi l’educazione vive una crisi di senso così come la tenuta della famiglia. Tant’è che potremmo anche farci la domanda: ma a che serve l’educazione? Siamo infatti certi che un bimbo o una bimba, deprivati dell’attenzione del genitore pedagogo, crescerebbe come un animale selvaggio, pronto a far danni a se stesso e agli altri?
Sorge spesso il sospetto che l’educazione sia praticata più per correggere che per indirizzare. L’educazione si ispirerebbe così ad obiettivi evitanti, ovvero proibire comportamenti sconvenienti. Le condotte soggette a educazione sono le più diverse: l’igiene, il mangiare, la cura degli spazi, la convivenza, il rispetto per gli adulti, l’adempimento dei doveri stabiliti dalle istituzioni, l’evitamento del pericolo. Se solo facessimo mente locale, capiremmo che le condotte da sottoporre ad addestramento quotidiano sono veramente tante. Queste condotte vanno sotto il nome di “comportamento”, che è il punto di vista privilegiato dell’educatore classico. Il paragone con gli animali è immediato. Li addestriamo perché agiscano nella direzione voluta dai propri padroni (forse una parziale eccezione rimangono i gatti, che a molti non sono poi così simpatici). Come con gli animali, quando i comportamenti sono deviati, subentra l’arsenale delle punizioni. Punire è un’invenzione pedagogica antica. La paideia greca nasce con protesi atte a percuotere i discenti distratti o ribelli. Oggi la persona educata mostra comportamenti in linea con le norme vigenti, evitando così la punizione che ha senso solo recando dolore. I metodi punitivi si sono evoluti nel tempo. Dal dolore fisico è diventata dolore spirituale: privazione di beni, restrizioni delle libertà, ricatto morale, tortura sonora, minaccia. Il premio invece è donato soprattutto a chi educa sotto forma di gratificazione sociale: “come è obbediente suo figlio!”. Ecco, la crisi dell’educazione nasce dalla crisi dell’obbedienza. Alcuni sono convinti che questa crisi sia così potente che per forza ci deve essere qualche patologia psicofisiologica, magari un disturbo dell’attenzione.
Di fronte a un mondo in totale cambiamento, che senso ha centrare l’educazione, se consideriamo questo programma di pratiche ancora utile, sull’adattamento alle norme e sull’obbedienza? Come adulti, siamo ancora disposti a usare premi e punizioni allo scopo di sentirci dire: come è educato suo figlio? Ho conosciuto molti padri e madri che sono stanchi di svolgere il ruolo di censori e vorrebbero armonizzare il loro sentimento di amore e la loro funzione educativa. Vorrebbero dare molto di più che banali regole di comportamento, spesso disattese quando l’occhio che vigila si distrae. Questi genitori stanno cercando una nuova forma di educazione, nuovi parametri e nuovi programmi di pratiche relazionali. Anche perché il modo con cui si educa cambia la vita anche all’educatore.
L’educazione, come insegnamento affettuoso e servizio, deriva dallo scopo. Se cambiamo lo scopo, anche i parametri di allenamento cambiano. Se lo scopo non è più trasformare un bimbo in un animale ubbidiente, ma elevare le sue potenzialità perché nella vita possa autodeterminare il suo destino, vedere il comportamento non basta più. Serve conoscere la cosmologia che alberga nella sua interiorità. “Come è felice suo figlio”, sostituirebbe il canone di giudizio fondato sull’obbedienza. Non le norme, ma i valori allora diventerebbero i sentieri di un’elevazione interiore; la bontà valorizzerebbe l’intelligenza. Non i comportamenti, ma i sentimenti riceverebbero la massima attenzione; l’amore per la vita ispirerebbe le relazioni. Non le azioni, ma le concezioni assurgerebbero al ruolo di ambiti di esercitazione e allenamento; la visione di un mondo da esplorare sostituirebbe le minacce da evitare. Non i premi e le punizioni, ma la valorizzazione della libertà di scegliere chi essere, da soli e con gli altri sarebbe il feedback con cui verificare l’efficacia della relazione educativa; l’immaginazione finalmente troverebbe un posto d’onore e la testa fra le nuvole tutta la nostra simpatia.
Non è un caso che i maggiori scontri, le più violente e spesso inconsulte reazione degli adolescenti, non avvengono certo per rovesciare il potere, ma per difendere la propria libertà di decidere e scegliere. Gli adolescenti sono in grado di difenderla, ma sono in grado di valorizzarla? Chiedersi a che serve l’educazione, dovrebbe portare a scoprire la risposta.
Coach e Direttore della Scuola di Coaching Umanistico