Autorealizzazione e letteratura: il modernismo pionieristico

Prima che gli psicologi umanisti come Maslow, Rogers e altri ponessero la questione dell’autorealizzazione (oggi tema centrale di ogni percorso di Coaching Umanistico), lo fecero alcuni scrittori italiani all’inizio del Novecento con i romanzi “modernisti”.

Pirandello fu assoluto pioniere, assumendo la trasformazione globale imposta dall’epoca moderna. Il personaggio pirandelliano prende la parola cercando di dare senso alla realtà in cui vive e si racconta come un essere in divenire, dilaniato da contraddizioni che non ricompone: sentimento e pensiero, vita ideale e vita reale, ambizione e fragilità, riso e pianto, felicità e dolore. La sua esistenza scorre al di sotto dei nessi causali che vorrebbero spiegarla. Mattia Pascal rientrerebbe a prima vista nella figura dell’inetto tipica dell’’800 e delineata da filosofi quali Schopenhauer e poeti del calibro di John Keats o Baudelaire. Ma l’inetto era l’inadatto alla lotta per la vita, vittima della selezione darwiniana. Con Mattia Pascal l’inetto acquista un nuovo significato. Più che inadatto, il personaggio si ribella alla trama che ci si aspetta da lui perché nel contesto culturale di appartenenza si sente oppresso, fiaccato, disgustato, annoiato, senza possibilità di miglioramento. Da qui i suoi tentativi di fuga verso la dimensione romanzesca del sogno, della possibilità e della libertà, che però non riesce a percorrere fino in fondo. Apre il campo dell’autorealizzazione ma non sa come coltivarlo e viene riassorbito dal reale.

Le crisi dei personaggi modernisti sono crisi di identità; si riferiscono alla domanda “chi sono” e vengono aperte da fallimenti paradigmatici ovvero da convinzioni radicate che si frantumano. Le crisi nascono da eventi che possono essere banali (es. il commento della moglie Dida a Vitangelo sul suo naso in Uno Nessuno e Centomila) o epici (es. la mattanza della Prima Guerra Mondiale come in Rubè). L’identità è sempre una questione sociale. Non ci si realizza nel vuoto, ma in contesti relazionali e culturali. Il paradigma dominante per realizzarsi è quello di adattarsi al contesto. L’adattamento implica seguire regole, valori, tradizioni, spesso tramandati tramite la figura del padre. Vitangelo dovrebbe fare il banchiere, Rubè l’eroe di guerra, Svevo l’imprenditore, Pietro Rosi il ristoratore. Ma questi personaggi non ci riescono non perché incapaci ma perché non lo vogliono. La loro identità entra in crisi per incompatibilità manifesta fra persona e contesto. La crisi paradigmatica dell’adattamento apre a un oltre, un nuovo orizzonte di possibilità, a una nuova coscienza. Pirandello lo chiama “lo strappo del cielo di carta”: una marionetta che vede sopra di sé un cielo che scopre essere di carta, dunque falso e che, una volta strappato, mostra che la propria vita è diretta dai fili di un burattinaio.

Lo “strappo del cielo di carta” è l’emergere di una nuova coscienza, che si vuole liberare da valori estranei e avviarsi verso sentieri propri. Dall’essere eterodiretto vorrebbe passare all’autorealizzazione. È una crisi profonda, quasi tragica ma inevitabile, perché come afferma la “Lanternofia” illustrata da Paleari a Melis, l’essere umano ha la capacità di “sentirsi vivere” ma la sua coscienza illumina nel buio della vita solo una parte delle sue possibilità. Ecco allora che il personaggio comincia a vivere in una condizione liminare, sospesa e di confine, fra il presente e il passato, fra la realtà e l’oltre. Uscire dal palcoscenico, genera una nuova inettitudine: non saper come essere liberi. La rottura però non si ricompone. Per non tornare indietro, i personaggi pirandelliani scelgono l’anonimato, la solitudine o il mutismo. Così Moscarda si rischiude in un ospizio, Pascal in una biblioteca impolverata e Gubbio in un mutismo radicale. L’inetto, dunque, non è più colui che non sa adattarsi alla vita, ma colui che non volendo adattarsi non sa come proseguire un cammino di liberazione e autodeterminazione della propria identità. E pur di non tornare a essere marionetta sotto un cielo di carta, arriva a disgregare la propria identità precostituita disperdendosi nella natura o in una comunità impersonale.

L’esplorazione aperta da Pirandello giunge a un nuovo stadio con Italo Svevo. In Zeno Cosini, il fallimento paradigmatico si manifesta in una scissione identitaria fra propositi sempre nuovi e inevitabili infrazioni dei propositi. I propositi sono armonici con la morale comune, ma le infrazioni pongono il desiderio della libertà. Il modello di uomo ideale, forte, adatto alla vita, capace di ereditare l’impresa del padre e dirigerla, viene sostituito da un uomo che non sa assumere i valori che professa e che si vanta di “una grandezza latente” che non mette alla prova. Anche Zeno Cosini rimane sulla soglia, evitando di cadere nelle trappole del contesto (fa il buon marito ma anche l’adultero), ma perdendo l’idea del bene. Nel suo definirsi buono e cattivo, devoto e irrisore, amico e brigante non sceglie. Il suo spessore morale di dissolve e se non uccide il rivale Guido è solo per il suo “quieto vivere”. Zeno elabora una visione della vita amorale, che non ha uno scopo, è solo “originale”. Con Zeno, l’adatto alla vita diventa il trionfatore, un pescecane che specula sulle tragedie umane e spera in una catastrofe che annienti l’intera umanità. Il nuovo paradigma, dunque, non presenta nulla di buono. Siamo a cavallo della Prima Guerra Mondiale.

Federigo Tozzi esplora la questione in Con gli Occhi Chiusi. Protagonista è Pietro Rosi, che vive la sua adolescenza come una fase esistenziale inquieta e disorientata fra la trattoria del padre che si è fatto da solo e il podere degli “assalariati”. Anche qui il fallimento paradigmatico del figlio che non segue le orme del padre è potente (il padre arriverà a vederlo come un estraneo), ma la scelta è sempre quella di una sospensione, che in Pietro diventa chiusura in una vita interiore che non vuole vedere la realtà (gli occhi chiusi) o la vede come se fosse sott’acqua. Evita l’eredità paterna ma non sa cogliere le occasioni che pure gli si parano davanti di un altro scopo nella vita (i consigli di Pino per esempio) né sa assumere gli eventi che, non assorbiti, diventano traumi. Pietro non è il risultato del contesto sociale, ma è un elemento estraneo e discordante e quando arriverà finalmente ad aprire gli occhi, il lampo di coscienza sarà così accecante che lo farà svenire.

Con Rubè di Borgese, l’eredità paterna si scontra con la realtà della storia. Rubè è un giovane carrierista, ambizioso, che assume la filosofia superomista del padre, e vede nella guerra una malattia ma anche un’opportunità di riscatto, di elevazione, di eroismo; da interventista parte volontario. L’impatto però con la realtà è devastante. Il rombo lontano delle macchine di morte lo gettano nel panico e nella vergogna, la fucilazione di un soldato traumatizzato gli mostra l’orrore della guerra, l’incapacità di padroneggiare il suo ruolo lo fa sentire un inetto, un intellettuale nominato ufficiale per cultura e non certo per competenza. Ma è soprattutto la paura che innesta un processo di disgregazione della sua identità. Prende così coscienza della sua “religione feroce”, fatta di violenta sopraffazione dei sani contro i malati, dei forti contro i deboli, dei falsi martiri e veri idolatri del successo. Si rasserena solo perché riceve una “buona ferita”, quella che non uccide ma che fa evitare la guerra. Tornato, si ritrova come un uomo senza alloggio, si sente come una palla da biliardo in balia di eventi che non controlla e non sa tirarsene fuori né sa tornare indietro.

Questi autori furono i primi a porre la questione dell’autorealizzazione come esigenza di realizzare la propria identità rompendo con i contesti culturali. Il fallimento paradigmatico di cui sono portatori, ovvero l’impossibilità di adattarsi a un contesto estraneo, è vissuto sia come questione esistenziale che come visione del mondo. Lo “strappo del cielo di carta” è irreversibile, fa accedere a una nuova possibilità di essere che però non si sa come percorrere e si traduce in una disgregazione senza sbocchi della propria identità.

Questi personaggi sono tutti uomini alle prese con un’identità virilista che non gli appartiene. Cambia il paradigma dell’”adatto” alla vita. Il fallimento dell’adattamento non è espressione di inettitudine ma di desiderio di libertà.  A quel punto i personaggi avrebbero dovuto porsi due domande: qual è il tuo obiettivo? Quale è il tuo movente? Chi scegli di essere? Per superare la soglia, porsi queste domande e cominciare a rispondere, ci vorrà il protagonismo delle donne che nel secondo dopoguerra entreranno sulla scena dell’autorealizzazione con altri valori e ben altro coraggio.

Luca Stanchieri

 

Bibliografia

L.Pirandello, Il Fu Mattia Pascal, Einaudi

L. Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Feltrinelli

L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila, Intra

A. Borgese, Rubè, Mondadori

F. Tozzi, Con gli occhi chiusi, Einaudi

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