Gli adolescenti sono straordinari. Rispecchiano noi adulti senza filtri. Sono puri, senza sovrastrutture difensive costruite in anni di ferite. E ci mostrano il vero di noi stessi. Dopo anni che ci lavoro, sono arrivato alla conclusione che le loro maggiori inquietudini derivino dai loro pari. Sono vittime di altri adolescenti che hanno un potere enorme, quello di cambiarti la visione del mondo e della vita nonostante i tuoi genitori. Sono vittime che sanno trasformarsi a loro volta in carnefici. Denigrano, prendono in giro, escludono, fanno male dicendo che “è solo uno scherzo”. E lo fanno in gruppo laddove si sentono forti. Lo abbiamo denominato bullismo narcisistico. Ciò che fa più male è la gratuità del gesto. Chi lo subisce non capisce perché, anche se si mette in discussione. Le ferite che infliggono sono profonde e rimangono nel tempo. Sono pugnalate all’esigenza sacrosanta di essere riconosciuti, inflitte proprio nel momento in cui la coscienza identitaria sta emergendo in cerca di risposte e riscontri. Il misconoscimento non è ovviamente un monopolio degli adolescenti. È un dramma che ci portiamo appresso anche nella vita adulta. Il suo punto di forza è che aneliamo a realizzarci con gli altri e grazie agli altri.
La sfida più grande dell’autorealizzazione è realizzare la nostra originalità, come unica e irriproducibile. Ma l’originalità che appaga la nostra sete di autenticità soffre di solitudine. Proprio l’essere unici ci rende felici e inquieti. La comparazione che facciamo fra il nostro “io” e gli “altri” non aiuta. Accumuliamo casi umani, esperienze altrui, ma la statistica è una magra consolazione. Persino il mal comune si rifiuta di darci un mezzo gaudio. La domanda di riconoscimento nasce dal superamento della solitudine autoriferita e dalla ricerca di conferme. Anche le smentite vanno bene se basate sulla conoscenza autentica. Per riconoscerci pienamente abbiamo bisogno di essere riconosciuti. A tal fine i neuroni a specchio non bastano. Essere riconosciuti va ben oltre l’essere visti o riflessi o approvati. Essere riconosciuti significa essere capiti, accolti, compresi nella nostra fatica di esistere e affermarci.
Le ferite del non amore sono ben poca cosa rispetto a non avere dagli altri un’idea fedele di noi stessi. Il misconoscimento (il non essere compresi) o il disconoscimento (l’essere trasparenti come l’eroina dei fantastici quattro) dipendono da vari fattori. Incultura dell’ascolto, individualismo egotico, superficialità, risentimenti diffusi o semplici incapacità. Noi stessi non siamo immuni da queste inculture antirelazionali. E, come l’adolescente che da vittima si trasforma in carnefice, trasformiamo la domanda di riconoscimento in una pretesa risentita e rancorosa. A volte infatti non siamo riconosciuti perché non ci mettiamo nelle condizioni di esserlo. Basta mostrarsi per essere riconosciuti? Mi sovvengono tanti bravi manager che dicono: i risultati devono parlare per me. Che errore! I risultati parlano di loro stessi, non di chi li ha raggiunti e di come c’è riuscito. Così per essere riconosciuti, o almeno tentarci, dobbiamo saper riconoscere gli altri. Comprendere la loro cultura, i loro pensieri, le loro motivazioni e sentimenti, ci permetterebbe di dispiegarci in una regione comune, quella dove possiamo incontrarci. Parlare di noi riconoscendo la soggettività di chi ci ascolta è un’arte, è la danza del riconoscimento. Riconoscerci, essere riconosciuti e riconoscere è una movenza le cui coreografie sono relazionali. Se riuscissimo a farlo, potremmo permettere agli adolescenti di imparare loro stessi a danzare muovendo i loro primi passi con grazia e felicità comuni.